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Nell'articolo di ieri abbiamo detto che quella di Trump - e della Le Pen, e della Meloni e in generale delle destre - è la vittoria di Bertoldo, ossia del buonsenso contro le ubbie ideologiche. Infatti, una di queste ubbie - oltre che un fraintendimento del concetto di libero mercato - è che la libertà coincida con la totale assenza di regole. In verità, non dico chi abbia competenze politiche o politologiche, ma anche uno studente di diritto alle prime armi o in generale chiunque abbia una sana cultura della libertà, sa che il requisito principale di ogni principio liberale è proprio nel limite della libertà oltre il quale comincia quella altrui.
E' con questa premessa che osservo, divertito, le polemiche di molti osservatori sui dazi che Trump vorrebbe introdurre e di come queste vadano contro il cosiddetto "libero mercato".

A tal riguardo, bisogna precisare, come abbiamo anticipato sopra, che libero mercato non significa che tutti sono liberi di fare quel che vogliono. Quella è l'anarchia, la legge della giungla. Il libero mercato teorizza un perimetro nel quale i competitori si muovono liberamente, entro determinate regole, con lo Stato arbitro che fischia i falli. Tutti i regimi più liberisti hanno leggi severissime contro, per esempio, i cosiddetti cartelli, cioè le aziende concorrenti che si mettono d'accordo per parificare i prezzi dei loro prodotti, alzandoli. Per non parlare delle rigidissime norme di antitrust o di abuso di posizione dominante.
Un altro modo per proteggere un regime liberale è giustappunto l'introduzione dei dazi, che parte da un presupposto inoppugnabile: se in una vasca si tiene una gara tra pesci azzurri, avremo una competizione paritaria. Se mettiamo uno squalo, la gara verrà alterata.
In questo senso, bisogna anche capire il contesto in cui maturano i dazi che Trump con ogni probabilità introdurrà. Il nuovo presidente si troverà a dover rilanciare un'industria letteralmente falcidiata dalla concorrenza cinese, circostanza che per gli antiamericani ideologici deriverebbe dall'incapacità delle aziende americane, che non sono più capaci di stare sul mercato globale. Il che, in parte, è anche vero. Rimane però sempre il punto di fondo che se l'azienda di un paese che ha determinate regole di tutela dei lavoratori o un regime fiscale meno favorevole - che serve a finanziare magari uno stato sociale migliore - deve concorrere con un'azienda straniera, appartenente ad un paese che queste regole non le ha, che sfrutta i lavoratori, che paga molte meno tasse, cannibalizzerà in breve tutta l'economia del proprio stato. Ed è quello che è successo in molti fronti anche in Italia. Senza stare a citare casi estremi come quello di Prato dove l'industria tessile è stata letteralmente distrutta dalla concorrenza cinese, cito allora il caso di una zona a me vicina: nel sorrentino, esisteva una ricchissima manifattura e avevamo interi laboratori di falegnameria, tutti falliti non appena abbiamo lasciato mano libera all'ingresso di prodotti provenienti dalla Cina.
Stesso discorso per ciò che concerne la difesa dei paesi europei. Trump è il portavoce di un'America che, a seconda dei punti di vista - quello filoamericano per cui "gli americani si sono stancati di farsi carico dei problemi del mondo" e quello antiamericano per cui "l'America è in declino e allora ricatta l'Europa" - non trova più conveniente imporsi come potenza mondiale. E questo, ovviamente, avrà conseguenze molto pesanti, soprattutto per i paesi europei, deboli e disarmati. Sicché, i dazi di Trump, come è ovvio che sia, faranno malissimo all'economia europea e, in generale, di tutti i paesi del mondo, così come la scelta di ripiegare sempre più verso un isolazionismo geopolitico. Ma questo è proprio il presupposto del sovranismo. Ogni paese deve essere, per quanto gli è possibile, autosufficiente nei propri settori chiave e padrone del proprio destino altrimenti sarà sempre costretto a dover dipendere dallo straniero che, ovviamente, farà pagare caro e amaro il tuo ingresso nel suo sistema.

In sintesi, il vecchio Donald annuncia un mondo che ritorna alla normalità e dove la globalizzazione - che è poi il nome politicamente corretto dell'imperialismo americano - dovrà inevitabilmente stopparsi di fronte al diritto, aggiungerei sacrosanto, da parte di ogni nazione di poter avere una filiera economica da produttore al consumatore e di poter schierarsi, nelle questioni più strategiche, a seconda delle proprie convenienze.
L'acronimo MAGA che sta per Make America Great Again, è lo slogan che ogni paese governato da politici interessati al benessere dei propri cittadini, dovrebbe far proprio. Certo, Fare Italia Grande Ancora creerebbe un acronimo piuttosto divertente ma insomma ci siamo capiti. Che la cultura dell'amor patrio e dell'autosufficienza economica sia diventata un'eresia e, a momenti, rischi magari anche di diventare reato - come dimenticare le parole di qualche mese fa di Lilli Gruber "mi sento male a sentire la parola patria e nazione" - è un'altra delle follie psichiatriche del progressismo che speriamo veda nella nuova presidenza americana se non l'inizio della fine, quantomeno la fine dell'inizio e, soprattutto, che i paesi europei prendano, quanto prima, esempio.
A molta gente, soprattutto dell'ala progressista, bisognerebbe spiegare che quando si è distrutta la propria patria, non si entra in un paradiso anarchico dove "ders no cauntri, ders no pippol". Quando hai distrutto la sovranità del tuo paese - etimologia "sovra" cioè che sta sopra tutti gli altri poteri di un territorio, compresi quelli stranieri - starai sotto qualcun altro.
Non necessariamente animato da buone intenzioni.


Franco Marino


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Ci riportano alla realtà dopo averci avvelenato (vaccini) e dissanguato (energia e guerra) per cinque anni. Senza contare i trent'anni in cui ci hanno imposto la fregatura della globalizzazione. Troppo facile così. Per me erano e rimangono il Nemico Numero 1 della nostra sovranità.
 
Il protezionismo in genere è adottato come misura temporanea, quando si tratta di sostenere le economie più deboli. Alla lunga provoca ritorsioni da parte dei paesi colpiti, e quindi riduzione degli scambi e meno disponibilità di beni sul mercato.
Se poi il protezionismo, come in questo caso, si abbina alla richiesta di maggiori spese militari per la NATO e per la ricostruzione dell'Ucraina (alle quali, nel nostro caso, si aggiungono anche quelle per rimborsare i debiti del PNRR), è facile prevedere che l'impatto sulla nostra economia sarà tendenzialmente recessivo. Trump, da americano, fa ovviamente l'interesse americano, e gli USA hanno un enorme deficit commerciale che dovrà essere colmato, se non vogliono perdere l'egemonia in favore dei BRICS. Noi però potremmo rispondere ai dazi con la svalutazione dell'euro e con l'aumento della domanda interna nell'area UE.
 


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